Forse abbiamo preso un immenso abbaglio iniziando a pensare che un’attività di branding rivolta alle persone potesse essere sviluppata allo stesso modo di una realizzata per un prodotto commerciale, un marchio di automobili o un servizio di noleggio vetture. Questi prodotti, aziende o servizi non sono equiparabili agli esseri umani. Il marketing, ci insegna il buon Kotler, parte dai bisogni, dalle ricerche di mercato e dallo sviluppo di un modello di business.
Gli esseri umani non agiscono così, non sono così; nascono prima dei bisogni che dovranno soddisfare, studiano e si appassionano anche a scienze, mestieri e arti che hanno poca richiesta di mercato; non valutano il guadagno futuro, ma ciò che li fa stare bene e in cui si sentono più portati.
Le persone hanno un volto, un nome e un cognome, non hanno un logo (a parte me, ma è stato un “errore di gioventù”); non devono occupare una fetta di mercato come le aziende o i prodotti; a una persona possono bastare uno (se è dipendente) o cento clienti (se è un libero professionista) per vivere bene del suo lavoro.
Ho scritto un migliaio di post, cinque libri e innumerevoli newsletter a sostegno del personal branding, un’etichetta che ha iniziato a stancarmi perché la vedo usata a sproposito da chi vende follower su Instagram, corsi sulla crescita personale o, addirittura, da chi propone metodi infallibili per diventare ricchi online con ChatGPT, il funnel marketing o il social selling.
Non sto contestando ciò in cui credo, ma ora l’etichetta mi sta stretta, la trovo parziale e limitante, soprattutto per quanto riguarda il raggio d’azione della diffusione di contenuti online.
Credo che, a livello estetico e concettuale, ora si debba spostare il focus su qualcosa che sta a monte rispetto a una bella foto profilo, a un buon contenuto e all’engagement, croce e delizia di chi pensa di fare di sé stesso un brand.
Vediamo un piccolo esempio.
Ci sono grandi professionisti che stimo e che per me sono punti di riferimento. Scrivono libri, fanno consulenze e formano migliaia di persone. Le stesse attività che faccio io; quindi, che differenza c’è tra me e loro?
Guardando le vendite dei miei libri, sono felice; credo di averne scritti un paio davvero ottimi, ma perché non vendo tanto quanto Seth Godin, Paolo Borzacchiello o Philip Kotler?
La risposta è semplice: non sono Seth Godin, Paolo Borzacchiello né Philip Kotler.
Se guardi i profili social di questi grandi autori, noterai che non hanno un pubblico e un engagement da influencer. Allora, cosa li distingue da me?
Hanno una reputazione straordinaria, ottenuta con le loro idee innovative; hanno grandi clienti e sono capisaldi nel loro settore.
Non sono i post, i like e la copertina di LinkedIn ad alimentare la mia o la tua fama.
Non importa se scrivo libri o contenuti migliori di qualcuno che ha una reputazione superiore alla mia.
Non importa se i miei libri sono più economici, più curati o più belli dei suoi. La considerazione che riceve è molto più grande della mia e questo cambia tutto.
Le aspettative battono sempre la realtà.
La reputazione batterà sempre chi ha tanti like sui social.
La governance della reputazione è molto più importante del “personal branding” che ti viene propinato da chi propone una mera esposizione patinata.
Quando si usa una disciplina per muoversi in ogni ambito dello scibile umano (e della vita in generale) è sempre un problema.
Il problema di molti marketer è che iniziano a identificarsi col loro personaggio. E tutto diventa “un marchio”
(“Quando possiedi soltanto un martello, tutto ciò che vedi assomiglia ad un chiodo.”)
Le persone hanno una loro identità personale. Che non dovrebbe essere confusa con l’identità di brand di un prodotto, idea o progetto.
È stato un piacere leggere questo contenuto scritto da chi è esperto del settore. Io non mi azzardo a parlare perché non è il mio mestiere. Ma questa cosa del “personal brand” l’ho sempre trovata contraria proprio a ciò che la disciplina del marketing dovrebbe portare al mondo.
Io gestisco insieme alla mia compagna un sito che parla di bio cosmesi. Inizialmente pubblicavamo video e articoli con lei protagonista, che parlava in prima persona ed era quindi tutto molto “personal”. Adesso che non può più pensavamo di convertire il sito in qualcosa di più “anonimo”, ma il passaggio mi spaventa un po’, non so se a livello di strategia saprei gestirlo da solo..per questo ho cercato qualche aiuto come la romi company e altre web agency..farei bene ad affidarmi ad una compagnia esterna?
grazie Riccardo, ti seguo con interesse perchè finalmente trovo qualcuno che si distingue dalla massa in termini di “spessore” e livello di contenuti. Scrivi con intelligenza e competenza e questo traspare tutto. Almeno per me..
questa è la considerazione che ho di te, acquisita in brevissimo tempo.
Ho letto questo articolo che trovo reale, e interessante che ha dato modo di fare diverse riflessioni. Una fra tutte, è dedurre che il personal branding, non è più cosi efficace come si pensa ca ciò che conta è la reputazione.
Come si crea dunque una reputazione? E cosa si intende precisamente con reputazione nel mondo del marketing? Hai qualche articolo? O ci sono dei contenuti per approfondire?