Siamo circondati sempre di più da profili che ci insegnano a credere in noi stessi, da persone che dicono “se vuoi puoi” e da libri che parlano di successo personale. Sui social è un fiorire di contenuti pubblicati per spronarci a essere leader di qualcosa o di qualcuno.
Eppure ho scoperto che dire a chi hai di fronte “credi in te stesso” è inutile, se non deleterio. Nessuno di coloro a cui viene detta questa frase cambia modo di pensare o la sua vita grazie a questa nuova consapevolezza.
L’esortazione “credi in te stesso” non è una novità degli ultimi anni. Me la sono sentita dire molte volte quando ero agli inizi, da persone più anziane o più esperte di me, e ricordo ancora l’effetto che mi faceva: aumentava la mia frustrazione e aggiungeva un carico emotivo poiché, oltre a non riuscire bene in un determinato ambito, iniziavo a pensare di essere io il problema, di non avere la spinta o la carica giusta. Mi sentivo carente sia a livello psicologico sia dal punto di vista delle competenze. Pronunciare questa frase allontana il risultato, non lo accelera.
Non sono uno psicologo, non ho competenze in materia e questo post non parla di te, parla di me; tuttavia, ho realizzato che c’è una buona alternativa al credere in sé stessi: la diffidenza. Ho scoperto che devo lavorare sulle mie competenze e non devo fidarmi, ma verificare. Non devo credere ma applicarmi con dedizione. Un passo alla volta. Dal piccolo al grande, dal facile al difficile. Ogni giorno, con calma, senza interruzioni: lento e costante.
Quando inizio qualcosa è come un gioco in cui sfido il sistema e verifico fino a che punto posso spingermi, crescere e appassionarmi. Non ti nego che ho abbandonato molti progetti durante il percorso, ma se non l’avessi fatto non avrei mai capito chi sono e in cosa riesco bene.
Puoi, come ho fatto io, sostituire la frase “credi in te stesso” con la più realizzabile “impegnati in quello in cui credi”. Spostare il focus è un buon modo per ottenere il risultato.
Questo articolo mi fa pensare a quella volta in cui giocavo a poker con il padre della mia ex, un vero campione del tavolo verde. Pensavo di essere un asso, ma dopo una serie di mani disastrose, mi sono ritrovato con tasche vuote e un ego ancora più svuotato. Mi sono sentito come Rocky Balboa nel primo film: battuto ma determinato.
Invece di lasciarmi abbattere, ho iniziato a trattarmi con gentilezza, riconoscendo che avevo ancora molto da imparare. Ho analizzato ogni mossa, non per flagellarmi, ma per capire dove avevo sbagliato. La volta successiva, armato di autocompassione e una buona dose di umiltà, mi sono seduto di nuovo al tavolo. Non ho vinto una fortuna, ma ho guadagnato il rispetto del padre della mia ex. Come Rocky, non ho vinto il titolo, ma ho ottenuto qualcosa di altrettanto prezioso: rispetto e crescita personale.
L’autocompassione mi ha permesso di vedere le sconfitte come opportunità di miglioramento, trasformando ogni errore in una lezione. Quindi sì, un po’ di diffidenza verso se stessi e una buona dose di autocompassione possono davvero fare la differenza.
Che storia bellissima! Ottimo esempio