Secondo gli studi di Yahoo e Enders, nei prossimi quattro anni è previsto il sorpasso del Native Advertising. La “pubblicità nativa” avrà un incremento del 156% e sarà la forma pubblicitaria (52%) più diffusa in Europa nel 2020.
I motivi di questa straordinaria crescita sono molti. I banner pubblicitari sono facilmente identificabili da un pubblico che ha imparato a riconoscerli e a difendersi con sistemi di Ad blocking. In secondo luogo questa forma pubblicitaria non sembra una promozione, ma la sua percepibile presenza è calata perfettamente nel contesto di un contenuto scritto, fotografato e filmato. La stoccata finale l’hanno data i social network in cui ora è presente una parte importante della popolazione. Come potete vedere dal grafico, il numero di persone che si informano attraverso Facebook (anche le sponsorizzazioni sulla newsfeed sono una forma ibrida di Native) ha superato quello delle radio e ha raggiunto la quantità di pubblico dei quotidiani. (per comodità ho semplificato un dato più complesso che puoi approfondire qua)
Il Native Advertising è una tecnica antica come i caratteri mobili di Johannes Gutenberg, conosciuta in Italia attraverso una variante più aggressiva chiamata dai media della carta stampata articolo pubbliredazionale. È regolamentato in modo da essere distinguibile dalla normale informazione, pena una multa che arriva fino a 100mila euro. Non voglio entrare in polemiche sull’effettiva applicazione di questa legge, perché gli esempi di promozioni mascherate sulle testate registrate sono facilmente identificabili.
Il Native Advertising non è una “marchetta” mascherata da articolo, ma una forma più sottile di convivenza di un prodotto all’interno di un contenuto. Gli esempi anche tra i blogger sono molti. Alcuni sono invitati dalle case automobilistiche a guidare un’auto in una determinata zona per descrivere le bellezze locali. Ovviamente, l’auto entra in scena ma senza occuparla. Altro esempio è quello delle fashion blogger che pubblicano una loro foto su Instagram mentre indossano capi di aziende che cercano la promozione. Oppure youtuber che fanno magicamente apparire prodotti tecnologici o videogiochi, senza decantarne le lodi, ma solo utilizzandoli per intrattenere il loro pubblico. L’obiettivo di questa modalità promozionale, oltre a non interrompere il flusso informativo e non essere bloccata dai software di Ad blocking, consiste nel far percepire la pubblicità come un elemento essenziale che compone il contenuto stesso.
In America i film non sono inframmezzati da inserzioni pubblicitarie, soltanto perché il cinema è già esso stesso la maggior forma di propaganda per i beni di consumo – Marshall McLuhan
Non c’è da stupirsi quindi della forte crescita di questo tipo di promozione dall’efficacia comprovata. Non è tutto oro quello che luccica. Questa pratica è di complessa realizzazione e richiede che le aziende si dotino di nuovi strumenti e avanzate tecniche di Digital PR. Serve una cultura nell’ambito delle comunicazioni digitali per riuscire a distinguere e misurare l’efficacia degli influencer da contattare, per definire un budget, e costruire un brief efficace. Serve la capacità di quantificazione delle attività per ottenere un quadro sull’effettivo ritorno dell’investimento. Tutte cose ben raccontate nel libro “Influencer Marketing” di Matteo Pogliani (questo potrebbe sembrare Native Advertising, ma non lo è, non ho ricevuto alcun compenso).
Ribadisco che, al centro delle conversazioni, ci sono le persone con la loro credibilità, reputazione e autorevolezza. L’esatto metro di paragone per una qualsiasi campagna promozionale di Native Advertising deve tener conto dell’estensione del pubblico, ma non può prescindere nemmeno dall’autorevolezza e credibilità del blogger o del comunicatore a cui si decide di affidare la diffusione. Non aspettatevi altro che la sincera valutazione del prodotto, perché nessun opinion leader autorevole parlerà mai bene di qualcosa in cui non crede. Significherebbe deludere chi crede in lui e la sua reputazione non è in vendita.